giovedì 8 maggio 2008

Flashback


Il fiume della gente scorre veloce lungo il marciapiede e qualcuno che ha più fretta di altri cammina sulla strada e io che non ho fretta sono fermo. Il fiume scorre fra argini fatti dei mattoni degli alti palazzi che a guardarli dal basso fanno quasi impressione. Occhiali da sole ampi, giornale in mano, cappotto lungo e grigio che copre fino al ginocchio dei jeans logori, scarpe comode. Mentre aspetto non leggo il giornale ma penso. Penso a quello che devo fare e non come lo devo fare, questo lo so bene, e neanche se sia giusto o meno quello che faccio. Penso che tutto ciò mi serva per non pensare: ci sono troppe cose da valutare, elementi da considerare e imprevisti da pianificare per andare altrove con la testa, per pensare che da qualche parte c'è la mia bambina e lì con lei sua madre. Il sole sta lentamente sorgendo dall'orizzonte ma prima che s'alzi sopra questi enormi edifici ce ne vorrà di tempo e così l'aria è ancora fredda. Guardo l'enorme portone del palazzo dove sono fermo e mi domando per quale diavolo di motivo l'abbiano fatto così grande "Chi diamine sarebbe dovuto passarci?!" mi dico sottovoce, poi mi guardo intorno per vedere se qualcuno mi abbia sentito.
D'improvviso il portone si apre e così si squarciano i miei pensieri rotti dalla tensione. La mano destra mi scivola sotto il cappotto verso il petto dove dicono che ci sia il cuore.
La mano destra sembra cercare di impedire al corpo di cedere sotto i colpi ritmati del cuore. Mentre l'ingresso lentamente si apre maledico me stesso, anni di questo lavoro e ogni volta la tensione mi uccide, credo che dovrei smettere. Lo dico ogni volta e poi penso che prima o poi, per mio volere o meno, smetterò. E l'uscio s'apre completamente e ne viene fuori un'uomo ordinario. Ritorno tranquillo. Ancora fa freddo, sono quasi le otto e aspetto. Mentre aspetto facendo finta di leggere scopro che i Red Sox hanno battuto gli Yankee di New York. Mi guardo intorno per cercare di capire se ho attirato l'attenzione di qualcuno: qui ognuno pensa agli affari suoi e corre veloce dove solo loro sanno. Di nuovo il portone a spazzare via i miei pensieri. La porta s'apre lentamente e gira verso l'interno come fosse la lancetta di un'orologio, come se fosse un conto alla rovescia: meno quindici, meno quattordici, il cuore riparte la sua corsa ma con meno fatica, come se l'adrenalina di prima fosse servita da riscaldamento, meno tredici, mi avvicino al palazzo di un paio di passi rimanendo nascosto nel flusso di gente, meno dodici, mano destra sotto al cappotto e altri due passi, meno undici, mi guardo intorno e guardo in alto, meno dieci, nello spiraglio della porta vedo dei capelli lunghi e neri di donna, meno nove e la scorgo sempre meglio e salgo i primi gradini, meno otto altri gradini verso la porta e la mia bambina in testa, meno sette e la madre, meno sei faccio attenzione dove metto i piedi, meno cinque arrivo davanti al portone e lo spingo forte con la sinistra e la lancetta accelera, 4,3,2,1, la mano destra esce allo scoperto portando con se un'arma nera il cui nero è prolungato dal silenziatore.
0, un colpo al petto dove dicono che ci sia il cuore e il sangue schizza come spumante da una bottiglia stappata per il capodanno. Getto il corpo cadente nel portone. Mi volto e mentre la lancetta\porta torna indietro scendo le scale che mi riportano nel fiume di gente. Riapro il giornale sperando di coprire le macchie di sangue. Attraverso la strada e mi dirigo verso una Ford grigia parcheggiata. Apro il portabagagli e prendo la borsa e poi corro senza correre, il passo veloce che tengo mi riporta alla mente i kenyani delle maratone è allora che spero di non muovermi come loro. E poi io ho le scarpe e sono bianco. Devio la corsa sulla sinistra in una strada meno affollata ed entro nello Stryer Cafè, alzo gli occhiali da sole e mi dirigo al bagno. La zip della borsa si lamenta mentre la apro e partorisce degli abiti puliti identici a quelli di prima: entrare vestiti in un modo ed uscire in un altro avrebbè potuto attirare l'attenzione e destare sospetti. Solo la mia pistola rimane la stessa a sinistra nell'interno del cappotto. Pochi minuti, un caffè espresso e sono di nuovo fuori. "Taxi!!!". Vengo ingoiato dalla vettura gialla. E via. L'uomo alla guida mi guarda dal retrovisore e forse capisce che non ho voglia di parlare e guida. Tra traffico, semafori e vie chiuse per lavori in corso usciamo fuori dal centro. La vettura gialla mi vomita davanti ad un piccolo motel. Pago e saluto.

(da accompagnarsi con "Una Calibro 9 Per Toni Rodriguez" - Album: L'irreparabile - Gatto Ciliegia Contro il Grande Freddo)

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