Jesus Christ Superstar è un musical degli anni '70, poi trasposto in film, dove Giuda è di colore e Cristo non risorge. Questo è il minimo comune denominatore. Poi c'è altro.
Jesus Christ Superstar è il sottofondo di una serata di un precoce alcoolismo, di un letto sconosciuto, di un calore nuovo così forte che riuscì poi a scrivere indelebilmente nel vento che mi porto dentro.
Poi le spiagge. Rigorosamente di notte, fra cani randagi molto amichevoli e panda in via d'estinzione improbabili. Cleptomane portavo a casa qualche chilo di sabbia e nasconderla non era facile: penetra ovunque e ancora ne porto qualche granello addosso. Inoltre i galli che avvistato il sole gridavano il suo arrivo.
Subito dopo il distacco e l'inizio di una vita su un fuso orario improbabile e il sole sempre puntuale a dimostrarmi di essere ridicolo.
Non di rado le partenze sono seguite da ritorni e quindi il rientro non sorprese più di tanto, quello che stupì fu cosa tornò: un bacio. Come uno scambio di valigie: fuori tutto in regola poi l'apri e ti rendi conto. Nella valigia c'erano altre notti bianche tra baci, carezze, pudori e vini di bassa qualità e tante tante parole a comporre discorsi di ogni specie.
Nel frattempo qualcosa mi aveva preso per un braccio e mi tirava. L'altra mano era attaccata alla valigia con dentro tutto quello che sono. Il "frattempo" in questione è quantificabile in circa quarantotto lune, lune di purgatorio, in cui incontrai perfino Dante, una ricerca escatologica che terminò nel paradiso.
A questo punto la scena si sposta nel laboratorio di un fabbro, un laboratorio in paradiso.
Qui il maestro di metalli temprò quel legame come una spada: momenti di immenso calore seguiti da bruschi raffreddamenti. Il fabbro lavorava e arrivava il primo amore, impossibile da collocare precisamente nel tempo e accolto da lacrime di gioia per quel corpo fra le mani. Il procedimento di tempra continuava: quella spada era la lega di due anime ed era pronta a tagliare il mondo.
Poi qualcosa andò storto...la tempra non riuscì, forse il metallo era stato esposto troppo al calore o forse chi diamine lo sa. La spada si ruppe in due parti che volarono via sotto i colpi che il martello menava con il supporto dell'incudine: qualcuno che assisteva al processo rimase ferito da quel metallo incandescente che si era messo a volare.
Jesus Christ Superstar è un musical degli anni '70, poi trasposto in film, dove Giuda è di colore e Cristo non risorge. E Cristo non risorge...e non si rianima. Hanno riaperto la tomba ed è ancora lì.
C'è rimasto da portare dei fiori sulla sua sepoltura.
E c'è molto altro ma è tutto.
(da accompagnarsi banalmente con "La Mia Promessa" - Album: Che Cosa Vedi? - Marlene Kuntz)
martedì 29 aprile 2008
lunedì 28 aprile 2008
...pensieri...
E' come la luce
Troppo forte fa male agli occhi
Fioca non ti permette di vedere bene le cose
Bisogna trovare un'intensità intermedia.
Ma un giorno un uomo di poche parole
e non poco strano mi disse che
in paradiso la luce è accecante.
Troppo forte fa male agli occhi
Fioca non ti permette di vedere bene le cose
Bisogna trovare un'intensità intermedia.
Ma un giorno un uomo di poche parole
e non poco strano mi disse che
in paradiso la luce è accecante.
Il Dilemma
In una spiaggia poco serena
camminavano un uomo e una donna
e su di loro la vasta ombra di un dilemma.
L'uomo era forse più audace
più stupido e conquistatore
la donna aveva perdonato, non senza dolore.
Il dilemma era quello di sempre
un dilemma elementare
se aveva o non aveva senso il loro amore.
In una casa a picco sul mare
vivevano un uomo e una donna
e su di loro la vasta ombra di un dilemma.
L'uomo è un animale quieto
se vive nella sua tana
la donna non si sa se ingannevole o divina.
Il dilemma rappresenta
l'equilibrio delle forze in campo
perché l'amore e il litigio sono le forme del nostro tempo.
Il loro amore moriva
come quello di tutti
come una cosa normale e ricorrente
perché morire e far morire
è un'antica usanza
che suole aver la gente.
Lui parlava quasi sempre
di speranza e di paura
come l'essenza della sua immagine futura.
E coltivava la sua smania
e cercava la verità
lei l'ascoltava in silenzio, lei forse ce l'aveva già.
Anche lui curiosamente
come tutti era nato da un ventre
ma purtroppo non se lo ricorda o non lo sa.
In un giorno di primavera
quando lei non lo guardava
lui rincorse lo sguardo di una fanciulla nuova.
E ancora oggi non si sa
se era innocente come un animale
o se era come instupidito dalla vanità.
Ma stranamente lei si chiese
se non fosse un'altra volta il caso
di amare e di restar fedele al proprio sposo.
Il loro amore moriva
come quello di tutti
con le parole che ognuno sa a memoria
sapevan piangere e soffrire
ma senza dar la colpa
all'epoca o alla Storia.
Questa voglia di non lasciarsi
è difficile da giudicare
non si sa se è cosa vecchia o se fa piacere.
Ai momenti di abbandono
alternavano le fatiche
con la gran tenacia che è propria delle cose antiche.
E questo è il sunto di questa storia
per altro senza importanza
che si potrebbe chiamare appunto resistenza.
Forse il ricordo di quel Maggio
gli insegnò anche nel fallire
il senso del rigore, il culto del coraggio.
E rifiutarono decisamente
le nostre idee di libertà in amore
a questa scelta non si seppero adattare.
Non so se dire a questa nostra scelta
o a questa nostra nuova sorte
so soltanto che loro si diedero la morte.
Il loro amore moriva
come quello di tutti
non per una cosa astratta
come la famiglia
loro scelsero la morte
per una cosa vera
come la famiglia.
Io ci vorrei vedere più chiaro
rivisitare il loro percorso
le coraggiose battaglie che avevano vinto e perso.
Vorrei riuscire a penetrare
nel mistero di un uomo e una donna
nell'immenso labirinto di quel dilemma.
Forse quel gesto disperato
potrebbe anche rivelare
come il segno di qualcosa che stiamo per capire.
Il loro amore moriva
come quello di tutti
come una cosa normale e ricorrente
perché morire e far morire
è un'antica usanza
che suole avere la gente.
Giorgio Gaber
camminavano un uomo e una donna
e su di loro la vasta ombra di un dilemma.
L'uomo era forse più audace
più stupido e conquistatore
la donna aveva perdonato, non senza dolore.
Il dilemma era quello di sempre
un dilemma elementare
se aveva o non aveva senso il loro amore.
In una casa a picco sul mare
vivevano un uomo e una donna
e su di loro la vasta ombra di un dilemma.
L'uomo è un animale quieto
se vive nella sua tana
la donna non si sa se ingannevole o divina.
Il dilemma rappresenta
l'equilibrio delle forze in campo
perché l'amore e il litigio sono le forme del nostro tempo.
Il loro amore moriva
come quello di tutti
come una cosa normale e ricorrente
perché morire e far morire
è un'antica usanza
che suole aver la gente.
Lui parlava quasi sempre
di speranza e di paura
come l'essenza della sua immagine futura.
E coltivava la sua smania
e cercava la verità
lei l'ascoltava in silenzio, lei forse ce l'aveva già.
Anche lui curiosamente
come tutti era nato da un ventre
ma purtroppo non se lo ricorda o non lo sa.
In un giorno di primavera
quando lei non lo guardava
lui rincorse lo sguardo di una fanciulla nuova.
E ancora oggi non si sa
se era innocente come un animale
o se era come instupidito dalla vanità.
Ma stranamente lei si chiese
se non fosse un'altra volta il caso
di amare e di restar fedele al proprio sposo.
Il loro amore moriva
come quello di tutti
con le parole che ognuno sa a memoria
sapevan piangere e soffrire
ma senza dar la colpa
all'epoca o alla Storia.
Questa voglia di non lasciarsi
è difficile da giudicare
non si sa se è cosa vecchia o se fa piacere.
Ai momenti di abbandono
alternavano le fatiche
con la gran tenacia che è propria delle cose antiche.
E questo è il sunto di questa storia
per altro senza importanza
che si potrebbe chiamare appunto resistenza.
Forse il ricordo di quel Maggio
gli insegnò anche nel fallire
il senso del rigore, il culto del coraggio.
E rifiutarono decisamente
le nostre idee di libertà in amore
a questa scelta non si seppero adattare.
Non so se dire a questa nostra scelta
o a questa nostra nuova sorte
so soltanto che loro si diedero la morte.
Il loro amore moriva
come quello di tutti
non per una cosa astratta
come la famiglia
loro scelsero la morte
per una cosa vera
come la famiglia.
Io ci vorrei vedere più chiaro
rivisitare il loro percorso
le coraggiose battaglie che avevano vinto e perso.
Vorrei riuscire a penetrare
nel mistero di un uomo e una donna
nell'immenso labirinto di quel dilemma.
Forse quel gesto disperato
potrebbe anche rivelare
come il segno di qualcosa che stiamo per capire.
Il loro amore moriva
come quello di tutti
come una cosa normale e ricorrente
perché morire e far morire
è un'antica usanza
che suole avere la gente.
Giorgio Gaber
domenica 27 aprile 2008
Nel portafoglio
Locale fumoso.
Luce proveniente da lampade appese al soffitto resa tenue dal fumo. Poco di lato vortica l'elica di un ventilatore che sembra sforzarsi di tagliare il filo che tiene le lampade o di tagliare qualche testa. Le teste sono le nostre. Tutti inseribili nell'insieme uomo. Chi in piedi, chi seduto, chi beve un whiskey, chi beve altro, chi fuma e chi maledice i suoi santi e la latitanza della dea Fortuna. Ognuno diverso dall'altro, escludendo i gemelli Sancrini seduti agli antipodi, sempre così distanti che a volte neanche sembrano somigliarsi. Ognuno con la sua storia e la sua vita, ma tutti seduti intorno a quel tavolo barcollante reso verde da una stoffa fissata dai più classici ferma tovaglia da bar. Perché siamo in un bar. Non proprio nel bar, ma in una stanza sul retro, forse un garage e nessuna finestra, per evitare che il mondo esterno entri.
Le carte vengono fuori dal mazzo una ad una e il suono che fanno è troppo veloce per scandire il tempo. Lentamente le carte si aprono a ventaglio e ognuno ha fra le mani il suo segreto.
"No"
"No"
"venti euro"
"Va bene"
"Vedo anche io"
"Tre carte"
"Una carta"
"Servito"
Poi il valzer dei rilanci. Sembra diventare una sfida a chi ce l'ha più lungo.
Il piatto è gonfio e ricco.
Si scoprono i punti.
Un'esultanza e due vagonate di maledizioni"
Uno dei due sconfitti si alza chiedendo scusa ai partecipanti al tavolo e si avvicina a Giacomo, che tutti chiamiamo James da quando eravamo bambini e nessuno ne ricorda il perché. Giacomo non gioca mai a poker. Giacomo fa lo strozzino.
Si ricomincia a giocare.
Le carte vengono distribuite e sembra che le mani dei giocatore siano calamite: i due di picche, le donne di cuori, i fanti di quadri scivolano su quel panno verde e attratte dalle dita di noi seduti lì. Solito rituale pagano. Apro le carte una ad una: due assi, una donna, un otto e un nove.
Tutti puntano e punto anche io.
Cambio 3 carte: via la donna, l'otto e il nove.
Prendo le nuove e di nuovo le spillo con più cura del solito. Quando i valori di ognuna sono visibili rimango di pietra. Medusa s'è nascosta nella mia mano e io l'ho guardata negli occhi.
Tutti puntano e puntano forte. E io "vedo" tutto meccanicamente. Automatismi da pokerista consumato.
Mentre i rilanci vanno avanti, mentre tutti, non solo quelli al tavolo, cercano di capire il punto degli altri, io penso ad altro.
La parola "Poker" sembra derivi dal francese e che significhi qualcosa tipo "bluff".
Alcuni dicono che il poker è una rappresentazione della realtà.
Io avevo in mano due assi e ora ho due assi e tre donne. L'incredibile è accaduto. Gli altri continuano a puntare forte. E io ho un full. E punto; tutto meccanicamente, mentre penso.
Penso alla donna scartata insieme al nove e all'otto. E penso che al poker e alla realtà.
Il piatto cresce. James si lecca i baffi come farebbe uno sciacallo in attesa della morte della preda. Tutta l'attenzione della sala cade sul nostro tavolo. Il vecchio proprietario dice che è il piatto più grande mai visto da quando lui è il padrone e quel locale era di suo padre.
Quasi trenta persone osservano sospese. Circa sessanta occhi e sessanta orecchie più o meno funzionanti attratte dal verde del tavolo. Anche il ventilatore sembra fermarsi per guardare.
D'improvviso come una bomba caduta a sfondare il soffitto della stanza mi alzo dal tavolo e tagliando la nebbia di nicotina imbocco la porta e vado via. I soldi restano sul tavolo. Prima di passare attraverso la soglia protetta da due energumeni mi giro e tutti mi stanno osservando.
"Il poker non è la realtà"
Fino ad oggi nessuno sapeva che punto avessi avuto in mano. Nessuno si è mai spiegato il mio gesto e la mia frase.
Il poker non è la realtà: due assi e tre donne battono due assi, una donna, un nove e un otto. Se non fossi stato in quella sala non avrei mai scartato quelle carte perché fuori, dove il tempo e lo spazio scorrono normalmente, avrebbero battuto qualsiasi altro punto.
Ancora nel portafoglio ho quel full e le tengo come amuleto e come monito.
Il poker è un bluff.
(da accompagnarsi con "Bungee Jumping" - Album: Quello Che Non C'è - Afterhours)
Luce proveniente da lampade appese al soffitto resa tenue dal fumo. Poco di lato vortica l'elica di un ventilatore che sembra sforzarsi di tagliare il filo che tiene le lampade o di tagliare qualche testa. Le teste sono le nostre. Tutti inseribili nell'insieme uomo. Chi in piedi, chi seduto, chi beve un whiskey, chi beve altro, chi fuma e chi maledice i suoi santi e la latitanza della dea Fortuna. Ognuno diverso dall'altro, escludendo i gemelli Sancrini seduti agli antipodi, sempre così distanti che a volte neanche sembrano somigliarsi. Ognuno con la sua storia e la sua vita, ma tutti seduti intorno a quel tavolo barcollante reso verde da una stoffa fissata dai più classici ferma tovaglia da bar. Perché siamo in un bar. Non proprio nel bar, ma in una stanza sul retro, forse un garage e nessuna finestra, per evitare che il mondo esterno entri.
Le carte vengono fuori dal mazzo una ad una e il suono che fanno è troppo veloce per scandire il tempo. Lentamente le carte si aprono a ventaglio e ognuno ha fra le mani il suo segreto.
"No"
"No"
"venti euro"
"Va bene"
"Vedo anche io"
"Tre carte"
"Una carta"
"Servito"
Poi il valzer dei rilanci. Sembra diventare una sfida a chi ce l'ha più lungo.
Il piatto è gonfio e ricco.
Si scoprono i punti.
Un'esultanza e due vagonate di maledizioni"
Uno dei due sconfitti si alza chiedendo scusa ai partecipanti al tavolo e si avvicina a Giacomo, che tutti chiamiamo James da quando eravamo bambini e nessuno ne ricorda il perché. Giacomo non gioca mai a poker. Giacomo fa lo strozzino.
Si ricomincia a giocare.
Le carte vengono distribuite e sembra che le mani dei giocatore siano calamite: i due di picche, le donne di cuori, i fanti di quadri scivolano su quel panno verde e attratte dalle dita di noi seduti lì. Solito rituale pagano. Apro le carte una ad una: due assi, una donna, un otto e un nove.
Tutti puntano e punto anche io.
Cambio 3 carte: via la donna, l'otto e il nove.
Prendo le nuove e di nuovo le spillo con più cura del solito. Quando i valori di ognuna sono visibili rimango di pietra. Medusa s'è nascosta nella mia mano e io l'ho guardata negli occhi.
Tutti puntano e puntano forte. E io "vedo" tutto meccanicamente. Automatismi da pokerista consumato.
Mentre i rilanci vanno avanti, mentre tutti, non solo quelli al tavolo, cercano di capire il punto degli altri, io penso ad altro.
La parola "Poker" sembra derivi dal francese e che significhi qualcosa tipo "bluff".
Alcuni dicono che il poker è una rappresentazione della realtà.
Io avevo in mano due assi e ora ho due assi e tre donne. L'incredibile è accaduto. Gli altri continuano a puntare forte. E io ho un full. E punto; tutto meccanicamente, mentre penso.
Penso alla donna scartata insieme al nove e all'otto. E penso che al poker e alla realtà.
Il piatto cresce. James si lecca i baffi come farebbe uno sciacallo in attesa della morte della preda. Tutta l'attenzione della sala cade sul nostro tavolo. Il vecchio proprietario dice che è il piatto più grande mai visto da quando lui è il padrone e quel locale era di suo padre.
Quasi trenta persone osservano sospese. Circa sessanta occhi e sessanta orecchie più o meno funzionanti attratte dal verde del tavolo. Anche il ventilatore sembra fermarsi per guardare.
D'improvviso come una bomba caduta a sfondare il soffitto della stanza mi alzo dal tavolo e tagliando la nebbia di nicotina imbocco la porta e vado via. I soldi restano sul tavolo. Prima di passare attraverso la soglia protetta da due energumeni mi giro e tutti mi stanno osservando.
"Il poker non è la realtà"
Fino ad oggi nessuno sapeva che punto avessi avuto in mano. Nessuno si è mai spiegato il mio gesto e la mia frase.
Il poker non è la realtà: due assi e tre donne battono due assi, una donna, un nove e un otto. Se non fossi stato in quella sala non avrei mai scartato quelle carte perché fuori, dove il tempo e lo spazio scorrono normalmente, avrebbero battuto qualsiasi altro punto.
Ancora nel portafoglio ho quel full e le tengo come amuleto e come monito.
Il poker è un bluff.
(da accompagnarsi con "Bungee Jumping" - Album: Quello Che Non C'è - Afterhours)
La similitudine dell'ecologia allegorica
Ci sono molte similitudini e metafore che potrebbero essere usate a questo punto. Le altre metafore sarebbero sicuramente più poetiche ma probabilmente meno calzanti nel vestire la realtà delle cose.
Non starò qui a parlare dei vampiri o di qualche malattia che logora dentro. Parlerò semplicemente dell'Uomo.
L'Uomo quando trova un posto adatto alle sue esigenze vi si insedia. Inizialmente i suoi sforzi sono mirati al difendersi dall'ambiente in cui si stabilisce: l'acquisizione della struttura "casa" che sia naturale o di costruzione (caverne, fronde degli alberi o palafitte, grattacieli) ne è un chiaro esempio. L'Uomo si garantisce il riposo grazie alla casa; la possibilità di avere una casa gliela fornisce la natura grazie ai "materiali".
Il problema del sostentamento è parallelo a quello della casa.
Questi due obiettivi vengono raggiunti passando per un periodo di fame e di paura. E' proprio questa fame e questa paura che porteranno l'Uomo a cercare di accumulare risorse in modo che nel futuro non possa più capitare che egli si trovi nelle stesse difficoltà del passato. A questo punto inizia lo sfruttamento del territorio che viene lentamente alterato e impoverito fin quando la natura, privata di tutto, si ritrova deturpata, impoverita e arida, non più adatta ad accogliere la vita: l'Uomo si trasferisce altrove. Altrove avverrà di nuovo questo ciclo fin quando egli non sarà in grado di raggiungere un equilibrio che sia sostenibile.
Questo equilibrio si chiama Amore, Rispetto, Gioia di stare insieme, Fiducia.
I vampiri non possono fare a meno di succhiare il sangue. L'Uomo più attento può trovare questa stabilità.
Tu sei l'Uomo.
E questo post parla d'Amore.
(da accompagnarsi con "L'Amore Stupisce" - Album: Parole Sante - Ascanio Celestini)
Non starò qui a parlare dei vampiri o di qualche malattia che logora dentro. Parlerò semplicemente dell'Uomo.
L'Uomo quando trova un posto adatto alle sue esigenze vi si insedia. Inizialmente i suoi sforzi sono mirati al difendersi dall'ambiente in cui si stabilisce: l'acquisizione della struttura "casa" che sia naturale o di costruzione (caverne, fronde degli alberi o palafitte, grattacieli) ne è un chiaro esempio. L'Uomo si garantisce il riposo grazie alla casa; la possibilità di avere una casa gliela fornisce la natura grazie ai "materiali".
Il problema del sostentamento è parallelo a quello della casa.
Questi due obiettivi vengono raggiunti passando per un periodo di fame e di paura. E' proprio questa fame e questa paura che porteranno l'Uomo a cercare di accumulare risorse in modo che nel futuro non possa più capitare che egli si trovi nelle stesse difficoltà del passato. A questo punto inizia lo sfruttamento del territorio che viene lentamente alterato e impoverito fin quando la natura, privata di tutto, si ritrova deturpata, impoverita e arida, non più adatta ad accogliere la vita: l'Uomo si trasferisce altrove. Altrove avverrà di nuovo questo ciclo fin quando egli non sarà in grado di raggiungere un equilibrio che sia sostenibile.
Questo equilibrio si chiama Amore, Rispetto, Gioia di stare insieme, Fiducia.
I vampiri non possono fare a meno di succhiare il sangue. L'Uomo più attento può trovare questa stabilità.
Tu sei l'Uomo.
E questo post parla d'Amore.
(da accompagnarsi con "L'Amore Stupisce" - Album: Parole Sante - Ascanio Celestini)
giovedì 24 aprile 2008
Giorni
Così come Santiago un grosso pescespada preso all'amo mi trascinò per due giorni in mare alto. Dopo averlo combattuto e vinto, navingando per il rientro e allo stremo delle forze, provai a tenere testa ai pescecani che volevano azzannare la sua carne. Tornai a casa di notte con solo la testa e la coda tenute insieme dalla colonna vertebrale. Ora riposo.
(Se ci fosse stato Manolo...)
(Se ci fosse stato Manolo...)
mercoledì 23 aprile 2008
Il secolo che abbiamo alle spalle è il Secolo Ventesimo. Un secolo di sangue, di morte, di sudore, di lacrime. Di dolore.
C’è stata la prima guerra mondiale, qualche milione di morti in una cazzata. Prima c’era stata la guerra di Libia. E poi la guerra civile spagnola: tre anni dove gli uomini si sono ammazzati come delle bestie feroci. La guerra d’Africa. E finalmente la seconda guerra mondiale. CINQUANTA MILIONI DI MORTI. Venti milioni solo in Russia. Sei milioni di ebrei: l’olocausto. Hiroshima. CENTOQUARANTA MILA MORTI QUELLA MATTINA. Novantamila morti a Nagasaki. Il giorno che sono sbarcati gli alleati, gli americani in Normandia, il D-DAY. Salvate il soldato Ryan. TREMILA MORTI. LA’, SULLA SPIAGGIA.
Io sono un ex colonnello del Genio. Sono un genio. Mi chiamo Eugenio. Sono a riposo, ma io non mi riposo mai. Io cogito ergo sum. Io penso. E l’altra notte ho pensato. Mi è venuta un’idea geniale che farà di me uno degli uomini più famosi dopo Einstein. Mi daranno il premio Nobel per la pace. Andrò alle Nazioni Unite a esporre il mio piano. Una stronzata. Un uovo di Colombo. Basta con queste guerre dove mandiamo a ammazzare questi giovani a diciotto, vent’anni per arricchire qualche petroliere o qualche banchiere internazionale. D’ora in poi le guerre saranno fatte dai vecchi!
“Quanti anni hai?”
“Settant’anni.”
“Via, sotto le armi!”
Questi vecchi che voi abbandonate nei giardini pubblici, per andarvene in giro per il mondo l’estate assieme a cani, gatti e altri animali d’ora in poi… un calcio nel culo! TUTTI IN CASERMA! PURE LE VECCHIE! Le vecchie le mettiamo tutte nella Croce Rossa. Ce le leviamo dai coglioni ste vecchiacce, vaffanculo! Vai, via sta vecchia, via nella croce rossa!
“Sparano sulla croce rossa!”
“Non ce ne frega un cazzo!”
E’ nell’ordine delle cose. Andremo negli ospedali, andremo negli ospizi, dappertutto. Tutti i malati terminali: tutti kamikaze!
“Ma io sto male!”
“Evvaffanculo checcenefrega devi morì, e vattelappiànderculo! Quale eutanasia, eutanasia un cazzo. Che, vuoi fà morì tuo nipote, che c’ha diciotto-vent’anni? Vattelappiànderculo, via!”
E’ meglio morire con un colpo in testa, con una palla in testa, che morire senza palle: dentro a un ospedale lì, intubato come un serpente dopo mesi di sofferenze. Il signor Marinetti, il futurista, diceva “le guerre sono l’igiene dell’umanità”. Una brutta frase, non m’è mai piaciuta. Ma forse in questo caso potrebbe anche funzionare.
E poi queste guerre al fronte saranno più pacioccone, più bonarie, come devo dì?
Prima linea:
“Spara!”
“E che me sparo? non vedo un cazzo! C’ho le cataratte che sparo?!?!”
“E butteje ‘na bomba a mano!”
“Seee, bonasera! La bomba a mano… c’ho la spalla qua che non la posso move… mavvaffanculo!”
“Ma che fai te sei cacato sotto? C’hai paura?”
“Ma che paura, non c’ho paura! C’ho ottant’anni cazzo, ogni tanto me caco sotto! E che cazzo, non ce lo sapevi?”
“Achtung achtung! Un momento! Fratelli, nemici che famo qua, che stamo a fa? Traduci un po’! Achtung! Eh..ma che stamo a giocà qua? Semo riusciti a campà fino a ottant’anni e mò s’ammazzamo così come tanti stronzi? Volemose bene fratelli! Vieqquà famo la pace damme n’bacetto!”
“Hai saputo l’ultima?”
“Che è successo?”
“Hanno preso tre ostaggi italiani”
“Ah poveri ragazzi…”
“Ma quale ragazzi c’hanno ottanta, settanta, novant’anni… non je frega più un cazzo a nessuno! E poi se questi ce li rimandano indietro, questi ostaggi, noi per togliergli il vizio sai che famo? Li riportamo all’ospizio!”
(da ascoltare su http://www.myspace.com/remoremotti)
C’è stata la prima guerra mondiale, qualche milione di morti in una cazzata. Prima c’era stata la guerra di Libia. E poi la guerra civile spagnola: tre anni dove gli uomini si sono ammazzati come delle bestie feroci. La guerra d’Africa. E finalmente la seconda guerra mondiale. CINQUANTA MILIONI DI MORTI. Venti milioni solo in Russia. Sei milioni di ebrei: l’olocausto. Hiroshima. CENTOQUARANTA MILA MORTI QUELLA MATTINA. Novantamila morti a Nagasaki. Il giorno che sono sbarcati gli alleati, gli americani in Normandia, il D-DAY. Salvate il soldato Ryan. TREMILA MORTI. LA’, SULLA SPIAGGIA.
Io sono un ex colonnello del Genio. Sono un genio. Mi chiamo Eugenio. Sono a riposo, ma io non mi riposo mai. Io cogito ergo sum. Io penso. E l’altra notte ho pensato. Mi è venuta un’idea geniale che farà di me uno degli uomini più famosi dopo Einstein. Mi daranno il premio Nobel per la pace. Andrò alle Nazioni Unite a esporre il mio piano. Una stronzata. Un uovo di Colombo. Basta con queste guerre dove mandiamo a ammazzare questi giovani a diciotto, vent’anni per arricchire qualche petroliere o qualche banchiere internazionale. D’ora in poi le guerre saranno fatte dai vecchi!
“Quanti anni hai?”
“Settant’anni.”
“Via, sotto le armi!”
Questi vecchi che voi abbandonate nei giardini pubblici, per andarvene in giro per il mondo l’estate assieme a cani, gatti e altri animali d’ora in poi… un calcio nel culo! TUTTI IN CASERMA! PURE LE VECCHIE! Le vecchie le mettiamo tutte nella Croce Rossa. Ce le leviamo dai coglioni ste vecchiacce, vaffanculo! Vai, via sta vecchia, via nella croce rossa!
“Sparano sulla croce rossa!”
“Non ce ne frega un cazzo!”
E’ nell’ordine delle cose. Andremo negli ospedali, andremo negli ospizi, dappertutto. Tutti i malati terminali: tutti kamikaze!
“Ma io sto male!”
“Evvaffanculo checcenefrega devi morì, e vattelappiànderculo! Quale eutanasia, eutanasia un cazzo. Che, vuoi fà morì tuo nipote, che c’ha diciotto-vent’anni? Vattelappiànderculo, via!”
E’ meglio morire con un colpo in testa, con una palla in testa, che morire senza palle: dentro a un ospedale lì, intubato come un serpente dopo mesi di sofferenze. Il signor Marinetti, il futurista, diceva “le guerre sono l’igiene dell’umanità”. Una brutta frase, non m’è mai piaciuta. Ma forse in questo caso potrebbe anche funzionare.
E poi queste guerre al fronte saranno più pacioccone, più bonarie, come devo dì?
Prima linea:
“Spara!”
“E che me sparo? non vedo un cazzo! C’ho le cataratte che sparo?!?!”
“E butteje ‘na bomba a mano!”
“Seee, bonasera! La bomba a mano… c’ho la spalla qua che non la posso move… mavvaffanculo!”
“Ma che fai te sei cacato sotto? C’hai paura?”
“Ma che paura, non c’ho paura! C’ho ottant’anni cazzo, ogni tanto me caco sotto! E che cazzo, non ce lo sapevi?”
“Achtung achtung! Un momento! Fratelli, nemici che famo qua, che stamo a fa? Traduci un po’! Achtung! Eh..ma che stamo a giocà qua? Semo riusciti a campà fino a ottant’anni e mò s’ammazzamo così come tanti stronzi? Volemose bene fratelli! Vieqquà famo la pace damme n’bacetto!”
“Hai saputo l’ultima?”
“Che è successo?”
“Hanno preso tre ostaggi italiani”
“Ah poveri ragazzi…”
“Ma quale ragazzi c’hanno ottanta, settanta, novant’anni… non je frega più un cazzo a nessuno! E poi se questi ce li rimandano indietro, questi ostaggi, noi per togliergli il vizio sai che famo? Li riportamo all’ospizio!”
(da ascoltare su http://www.myspace.com/remoremotti)
martedì 22 aprile 2008
Un punto di vista su...
"L'amore non esiste."
"E' per questo che lo facciamo: perché esista"
(da A/R Andata+Ritorno di Marco Ponti)
L'amore non esiste. Cioè esiste nel momento in cui lo facciamo, in cui lo fabbrichiamo. Come se fosse una delle tante sostanze endogene prodotte dal nostro corpo. Chissà che in un futuro non troppo lontano qualche scienziato non scopra che l'amore non è null'altro che una sensazione generata da alcune proteine che si legano a taluni recettori nel cervello: Amore in pillole! la fine del romanticismo e dell'essere romantici.
Produciamo amore, una merce deperibile che va consumata fresca giorno per giorno altrimenti marcisce. E se marcisce macera dentro chi l'ha prodotta, chi non è riuscito a venderla.
L'amore è una droga: da assuefazione e dipendenza.
Si può avere una dipendenza forte e una debole.
L'assuefazione porta alla riduzione dell'effetto su di noi, quindi per avere la stessa efficacia dobbiamo aumentare la dose da assumere. Ora, se ci viene concesso più amore tanto meglio ma diversamente potremmo avere un problema: se la dipendenza è forte non possiamo farne a meno e andiamo incontro ai dolori della crisi di astinenza, mentre se è debole l'abuso termina in quanto il quoziente beneficio/costo è troppo basso. Da qui si genera una cascata di eventi abbastanza complessi che coinvolge il venditore (in quanto questo è a sua volta anche compratore e viceversa)la cui trattazione va oltre i propositi di questo post ed è riassunta nella tabella 1a (tabella che non esiste e che mi sono inventato ora).
(da accompagnarsi con "Oggi Hai Parlato Troppo" - Album: Metallo Non Metallo - Bluvertigo)
"E' per questo che lo facciamo: perché esista"
(da A/R Andata+Ritorno di Marco Ponti)
L'amore non esiste. Cioè esiste nel momento in cui lo facciamo, in cui lo fabbrichiamo. Come se fosse una delle tante sostanze endogene prodotte dal nostro corpo. Chissà che in un futuro non troppo lontano qualche scienziato non scopra che l'amore non è null'altro che una sensazione generata da alcune proteine che si legano a taluni recettori nel cervello: Amore in pillole! la fine del romanticismo e dell'essere romantici.
Produciamo amore, una merce deperibile che va consumata fresca giorno per giorno altrimenti marcisce. E se marcisce macera dentro chi l'ha prodotta, chi non è riuscito a venderla.
L'amore è una droga: da assuefazione e dipendenza.
Si può avere una dipendenza forte e una debole.
L'assuefazione porta alla riduzione dell'effetto su di noi, quindi per avere la stessa efficacia dobbiamo aumentare la dose da assumere. Ora, se ci viene concesso più amore tanto meglio ma diversamente potremmo avere un problema: se la dipendenza è forte non possiamo farne a meno e andiamo incontro ai dolori della crisi di astinenza, mentre se è debole l'abuso termina in quanto il quoziente beneficio/costo è troppo basso. Da qui si genera una cascata di eventi abbastanza complessi che coinvolge il venditore (in quanto questo è a sua volta anche compratore e viceversa)la cui trattazione va oltre i propositi di questo post ed è riassunta nella tabella 1a (tabella che non esiste e che mi sono inventato ora).
(da accompagnarsi con "Oggi Hai Parlato Troppo" - Album: Metallo Non Metallo - Bluvertigo)
Da ventralista a fosburysta...
Sono sempre stato un ventralista, anche con l'avvento della Fosbury. Sono sempre stato ventralista come fosse una religione, forse per formazione e non hai mai pensato di diventare un fosburysta. Poi mi viene un dubbio, ma lo scaccio via e lo nascondo da qualche parte. Poi vedo qualche fosburysta saltare alto. Il dubbio c'è sempre ma è nascosto. Allenamento. Allenamento. Allenamento. Salto! anche io salto quanto loro; neanche il tempo di gioire della nuova misura che mi giro e loro senza fatica ancora più in alto. Il dubbio batte forte per uscire da dove l'ho imprigionato: eccolo! si slega! esce fuori, mi corre incontro. Un pugno al volto ed uno allo stomaco; cado a terra e in quella posizione bloccato dal dolore il dubbio cerca di indottrinarmi. Rimango sdraiato a terra.
Il giorno dopo tento un salto dorsale. Corro la traiettoria curva, stacco, rotazione: l'asticella non c'è più, sguardo verso il cielo, non penso a nulla, atterraggio soffice. Asticella superata. Primo tentativo. Grande misura. Fine allenamento.
Il giorno seguente ancora un salto fosbury. Corsa, impulso e stacco da terra e poi niente più terra, solo cielo infinito. Altra grande misura. Fine allenamento. Sconforto: ho sprecato il mio tempo. Mi chiudo nella convinzione di aver sperperato energie: avrei potuto fare di meglio e prima.
Faccio un giro sulla spiaggia cercando di fare i conti con la mia contrizione.
Altri giorni, pochi allenamenti e sono anche io un maledetto leggero fottuto fosburysta. Pensando ciò vengo colto da nausea, senso di vomito e poi vomito. Continuo a rigurgitare riflettendo sul sorprendente fenomeno del vomito: mangi qualcosa convinto che scendendo non torni più su, poi per qualche motivo, che siano odori, pensieri o chissà cosa, ricompare tutto di nuovo e se prima nel mandare giù avevi avuto piacere e provato gusto ora il risultato è opposto.
Cerco di riprendermi.
Torno a saltare. Non c'è nessuno che si allena e così, come per irridere allo sciocco ventralista che ero, tento un salto nel vecchio stile. Rincorsa più rettilinea, spinta sulle gambe e vedo il suolo da un'altra prospettiva, mi vedo girare sopra l'asticella e la vedo cadere insieme a me. Ritento, questa volta con meno scherno per me stesso e mentre sono in aria vedo il punto da dove sono partito, vedo l'asticella, vedo il resto del campo di allenamento e mi vedo cadere. L'asticella nel suo elastico traballare è indecisa se rimanere su o cadere. Senza che io ne sappia il motivo rimane lì.
Torno ventralista. Torno ad essere quello che ero. Non si può essere quello che non si è. Mi piace guardare le cose sotto un altro punto di vista, affrontare l'asticella e guardarla da ogni angolatura, conoscere le cose che ho intorno nella loro interezza. Non mi piace osservare l'infinito del cielo: senza punti di riferimento quasi non ti accorgi di cadere se non fosse per l'impatto; non mi piace lasciarmi l'asta alle spalle, preferisco affrontarla muso a muso.
Mi alleno e salto. Ventrale ovviamente. Maledetti leggeri fottuti fosburysti.
(da accompagnarsi con "Ventrale" - Album: Bachelite - Offlaga Disco Pax)
Il giorno dopo tento un salto dorsale. Corro la traiettoria curva, stacco, rotazione: l'asticella non c'è più, sguardo verso il cielo, non penso a nulla, atterraggio soffice. Asticella superata. Primo tentativo. Grande misura. Fine allenamento.
Il giorno seguente ancora un salto fosbury. Corsa, impulso e stacco da terra e poi niente più terra, solo cielo infinito. Altra grande misura. Fine allenamento. Sconforto: ho sprecato il mio tempo. Mi chiudo nella convinzione di aver sperperato energie: avrei potuto fare di meglio e prima.
Faccio un giro sulla spiaggia cercando di fare i conti con la mia contrizione.
Altri giorni, pochi allenamenti e sono anche io un maledetto leggero fottuto fosburysta. Pensando ciò vengo colto da nausea, senso di vomito e poi vomito. Continuo a rigurgitare riflettendo sul sorprendente fenomeno del vomito: mangi qualcosa convinto che scendendo non torni più su, poi per qualche motivo, che siano odori, pensieri o chissà cosa, ricompare tutto di nuovo e se prima nel mandare giù avevi avuto piacere e provato gusto ora il risultato è opposto.
Cerco di riprendermi.
Torno a saltare. Non c'è nessuno che si allena e così, come per irridere allo sciocco ventralista che ero, tento un salto nel vecchio stile. Rincorsa più rettilinea, spinta sulle gambe e vedo il suolo da un'altra prospettiva, mi vedo girare sopra l'asticella e la vedo cadere insieme a me. Ritento, questa volta con meno scherno per me stesso e mentre sono in aria vedo il punto da dove sono partito, vedo l'asticella, vedo il resto del campo di allenamento e mi vedo cadere. L'asticella nel suo elastico traballare è indecisa se rimanere su o cadere. Senza che io ne sappia il motivo rimane lì.
Torno ventralista. Torno ad essere quello che ero. Non si può essere quello che non si è. Mi piace guardare le cose sotto un altro punto di vista, affrontare l'asticella e guardarla da ogni angolatura, conoscere le cose che ho intorno nella loro interezza. Non mi piace osservare l'infinito del cielo: senza punti di riferimento quasi non ti accorgi di cadere se non fosse per l'impatto; non mi piace lasciarmi l'asta alle spalle, preferisco affrontarla muso a muso.
Mi alleno e salto. Ventrale ovviamente. Maledetti leggeri fottuti fosburysti.
(da accompagnarsi con "Ventrale" - Album: Bachelite - Offlaga Disco Pax)
lunedì 21 aprile 2008
r u suggesting coconuts migrate?
"Vorresti dire che le noci di cocco migrano?"
Se le noci di cocco migrassero, se le noci di cocco volassero si spiegherebbero quei segni neri tondi che hanno, che le accomunano ad una palla da bowling: non sono altro che i colpi sparati dai cacciatori. E non venitemi a dire "Quelli sono i segni di dove il frutto è unito alla pianta"...non complicate le cose...non è così. La pianta del cocco non è un abat-jour: sali in cima, avviti la noce-lampadina, torni a terra, aspetti l'oscurità rilassandoti su un'amaca tra due tronchi (e intanto speri di aver avvitato bene le "lampadine"), appena sceso il buio premi il tasto e....niente. Niente di niente. Buio come prima. Poi pensi "Che imbecille...non ho levato quell'involucro peloso" e ti consoli dicendoti che non sei un elettricista. No no...quei segni non sono dovuti alla pianta...i cacciatori sicuramente.
Immagino i giornali che pubblicano "Cacciatore spara a noce di cocco in volo che morente gli precipita sul capo: l'uomo è grave" secondo me era già grave prima che gli sparasse.
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